“Viene da pensare con il dovuto sgomento che laggiù insieme ad Alfredo, scivolò il futuro pulito degli italiani, la loro innocenza, il pudore, la cautela, la misura, il decoro, in qualche modo l’antica grazia. I riti di passaggio indicano un prima e un poi. Ma è sul confine tra la vita e la morte, nell’oscurità fangosa di quel pozzo incustodito, che in quei giorni si cominciò a capire che cosa stava diventando il nostro paese… Nelle 18 ore di diretta per la prima volta in Italia lo spettacolo si comportò da padrone assoluto… Tutto divenne da allora più facile e più sbagliato. Tutto più visibile in un paese, diceva Pasolini, orribilmente sporco”. Filippo Ceccarelli
È il tardo pomeriggio di mercoledì 10 giugno 1981. Un bambino di sei anni, Alfredo Rampi, giocando su un campo abbandonato cade dentro un pozzo artesiano lasciato aperto. Più che un pozzo un buco di 30 centimetri di diametro.
Caos, disorganizzazione, nessun coordinamento ma molta buona volontà per tirare fuori vivo quel bambino.
Appeso ad un filo viene calato nel pozzo un microfono; poi anche una sonda con acqua e zucchero, e poi con del latte. In ginocchio per terra la mamma mette la testa nel buco e parla con il suo piccolo, ancora più fragile perché cardiopatico; lo rassicura, gli ripete: ora ti veniamo a prendere. Ma è soprattutto uno dei vigili del fuoco, Nando Broglio, padre di quattro bambini, a entrare in confidenza con Alfredino, a tenerlo sveglio, a cantargli la sigla dei suoi cartoni animati preferiti, a raccontargli che quel rumore assordante della trivella è Mazinga, è Jeeg Robot che sono venuti a salvarlo. Gli promette: “Domani ti porto con me sul camion dei pompieri a fare un giro a sirene spiegate”.
Le sue parole gelano il sangue. Il suo affanno, il suo pianto. Chiama la mamma, ha freddo e vuole tornare a casa.
Intanto comincia ad arrivare una quantità impressionante di gente. Tecnici, speleologi, geologi, volontari. Ma soprattutto arrivano truppe di turisti del macabro corsi ad affacciarsi sul baratro, a intralciare i soccorsi, a fare chiasso, ad applaudire. “State zitti che non riesco a sentirlo”, implorò la madre. Alfredino non ti addormentare.
Provano in tutti i modi a salvarlo, sbagliando, improvvisando, ma dando il sangue. I tentativi vanno avanti per 63 ore. La certezza, ora dopo ora, che il bambino è precipitato ancora più in basso, prima a 26 metri, poi a 38, poi a 61: colpa delle vibrazioni.
L’ambulanza aspetta col motore acceso. Arriva Pertini, guarda nel buco nero, chiede di potere parlare con Alfredino. Ma ormai dal pozzo salgono solo lamenti. A reti unificate il presidente si toglie gli occhiali e si asciuga le lacrime, straziato come gli oltre 20 milioni di italiani incollati davanti alla tv: nel volgere di una notte Alfredino è diventato il bambino di tutti.
A fare l’ultimo tentativo è uno speleologo di 25 anni, Donato Caruso. Sull’orlo del pozzo Pertini lo abbraccia. È l’alba di sabato. Ormai Alfredino non dà più segni di vita. Alle 7,20 di sabato mattina viene dichiarata la sua morte presunta.
Sepolto vivo, inghiottito dal buio.
E lo show del dolore ebbe inizio. La gente che arrivò a Vermicino fu davvero tanta dopo le prime edizioni del Tg. Molti per puro dispiacere e commozione, ma altri per curiosità e in cerca dello scoop.
Forse anche i media, un po’ come la storia, insegnano se si va a ritroso negli anni. Oggi ci meravigliamo dell’attenzione morbosa riservata agli ultimi casi di cronaca. Trent’anni fa però fu lo stesso e grazie alle sole edizioni del Tg. Sarebbe stato amplificato ancor di più con Internet, Facebook e tutto quello che oggi abbiamo a disposizione. Forse il limite non l’abbiamo superato ora, ma molto tempo fa rispettando poco il dolore di Alfredino e della sua famiglia.
di Stefania Paradiso
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